Fundamento destacado: 6.2.1. Per l’esattezza, quanto al regime di imputazione della responsabilità, in applicazione del criterio oggettivo di cui all’art. 2052 cod. civ., sarà a carico del preteso danneggiato allegare e dimostrare che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall’animale selvatico. Siffatto onere potrà ritenersi soddisfatto allorché sia stata dimostrata la dinamica del sinistro, nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla legge n. 157 del 1992, o, comunque, che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato. Nella peculiare ipotesi, invero, statisticamente piuttosto frequente, di danni derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, non potrà ritenersi sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell’animale sulla carreggiata, e dell’impatto tra lo stesso ed il veicolo, in quanto il danneggiato, oltre a dover provare che la condotta dell’animale sia stata la «causa» dell’evento dannoso, è comunque onerato, ai sensi dell’art. 2054, comma 1, cod. civ., della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, cioè di avere, nella specie, adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida. Invero, che il criterio di imputazione della responsabilità a carico del proprietario di animali di cui all’art. 2052 cod. civ. non impedisca l’operatività della presunzione prevista dall’art. 2054, comma 1, cod. civ., nei confronti del conducente di veicolo senza guida di rotaie per danni prodotti a persone o cose, compresi anche gli animali, dalla circolazione del veicolo, è affermazione costante nella giurisprudenza di questa Corte. E ciò sul presupposto che l’art. 2054 cod. civ. esprima principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 7 marzo 2016, n. 4373, Rv. 639473-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 agosto 2002, n. 11780, Rv. 556722-01).
Corte di Cassazione
sezione III civile
ordinanza n.13848 del 6 luglio 2020
FATTI DI CAUSA
1. La Regione Abruzzo ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 70/18, del 6 febbraio 2018, del Tribunale de L’Aquila, che, accogliendo solo parzialmente il gravame esperito dall’odierna ricorrente contro la sentenza n. 1043/16, del 22 agosto 2016, del Giudice di pace di Pescara, ha confermato la condanna della Regione a risarcire il danno alla vettura subito da Vladimiro Marrama (limitandosi ad escludere, in ragione del parziale accoglimento dell’appello, la voce relativa al cd. «danno da fermo tecnico»), a causa dell’impatto tra il veicolo e due cervi, sinistro occorso in data 23 novembre 2013.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierna ricorrente di essere stata convenuta in giudizio dal Marrama, che chiedeva il ristoro del danno patito a cagione del descritto sinistro, e di essersi difesa, tra l’altro, eccependo il difetto di titolarità passiva dell’obbligo dedotto in giudizio, da imputarsi, a suo dire, alla Provincia territorialmente competente, all’ente proprietario della strada e/o al Parco nazionale della Majella. Riconosciuta dal primo giudice la responsabilità della Regione, la stessa veniva condannata a risarcire il danno al Marrama, liquidato in complessivi euro 2.498,72, importo dal quale veniva esclusa, dal Tribunale dell’Aquila, che accoglieva, sul punto, l’appello della convenuta soccombente, la somma di euro 300,00, già liquidata a titolo di danno da «fermo tecnico» della vettura.
3. Avverso la sentenza del Tribunale aquiliano ricorre per cassazione la Regione Abruzzo, sulla base, come detto, di un unico motivo.
3.1. Esso deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione delle previsioni di cui agli artt. 1 e 9 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 e dell’art 2043 cod. civ., nonché erronea imputazione, ad essa ricorrente, della responsabilità per danni cagionati dalla fauna selvatica. Rileva, preliminarmente, la Regione Abruzzo che la propria responsabilità è stata riconosciuta, dalla sentenza impugnata, per effetto della mancata attivazione di barriere di protezione o di altri strumenti volti ad evitare danni del tipo di quello verificatosi nell’area interessata dal sinistro. In particolare, la responsabilità di essa Regione è stata affermata sul presupposto che, in materia di controllo della fauna selvatica, i compiti, pure attribuiti alle Province, sono considerati espressamente «funzioni amministrative regionali ad esse delegate».
Nessuna autonomia decisionale è stata, però, riconosciuta, sempre secondo la sentenza impugnata, alle Province abruzzesi, in quanto l’art. 55, comma 5, della legge regionale 28 gennaio 2004, n. 10, individuando l’utilizzo delle risorse finanziarie che la Regione pone a disposizione delle Province, non prende in considerazione le funzioni di controllo della fauna selvatica, il cui esercizio, da parte dei delegati, resta pertanto privo di effettività e di concretezza. In ragione di tale situazione non può, quindi, riconoscersi, sempre secondo la sentenza impugnata, alcuna responsabilità in capo alla Provincia, non avendo ottenuto dall’ente delegante adeguati poteri e provviste per fare fronte a tali situazioni. Tali affermazioni, tuttavia, secondo la ricorrente, sarebbero state contraddette dalla più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità aquiliana per danni da fauna selvatica andrebbe ascritta esclusivamente alle Province, sul rilievo che ad esse spetta l’esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione della fauna, nell’ambito del loro territorio, in forza di compiti, rilevanti, di volta in volta attribuiti dalle singole leggi regionali. Si tratterebbe, peraltro, di affermazioni che la Suprema Corte avrebbe compiuto anche con specifico riferimento alla Regione Abruzzo (è citata Cass. Sez. 3, ord. 13 ottobre 2017, n. 24089).
4. Ha proposto controricorso il Marrama, per resistere all’avversaria impugnazione. L’infondatezza del ricorso discenderebbe, secondo il controricorrente, innanzitutto dalla previsione di cui all’art 4-bis della legge regionale 23 giugno 2003, n. 10, secondo cui la Regione Abruzzo è responsabile per i danni causati da incidenti stradali, non altrimenti risarcibili, provocati dalla fauna selvatica nel territorio regionale durante la regolare circolazione veicolare lungo ogni strada aperta al pubblico transito, prevedendosi anche che l’indennizzo sia pari al 100% del danno, demandando, solo per l’accertamento dello stesso, le rispettive Province. D’altra parte, poi, a fondare la responsabilità della Regione nel caso di specie, verrebbe anche il rilievo che il sinistro si è verificato proprio su una strada regionale. Di conseguenza, opererebbero le previsioni di cui agli artt. 2051 e 2043 cod. civ. per cattiva o omessa custodia del tratto di strada, in special modo per la mancata segnalazione della presenza, in zona, di fauna selvatica. Ad esonerare, dunque, la Regione da responsabilità potrebbe, in astratto, rilevare soltanto il caso fortuito, ipotizzabile quando l’evento dannoso presenti i caratteri delle imprevedibilità e della inevitabilità, ovvero nel caso in cui l’insidia, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non poteva essere rimossa o segnalata per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere.
5. Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il motivo, infatti, non è fondato.
6.1.1. La censura, come detto, investe esclusivamente la questione, che attiene alla titolarità, da lato passivo, del rapporto dedotto in giudizio, della individuazione del soggetto tenuto a subire, sul piano risarcitorio, le conseguenze dei danni cagionati, in particolare nel caso che occupa nel territorio regionale abruzzese, dalla fauna selvatica. Sul punto, deve darsi atto dell’esistenza, nella giurisprudenza di questa Corte, di orientamenti non sempre univoci, quanto al problema se tale soggetto, su un piano generale, debba individuarsi nelle singole Regioni, ovvero nelle loro Provincie o in altri enti che risultino, in concreto, coinvolti in ciascuna vicenda (ovvero quelli, e ciò, soprattutto, in relazione a danni verificatisi in occasione di incidenti stradali, proprietari della strada «teatro» del sinistro). Tale incertezza rende, pertanto, necessario un ripensamento dell’intera tematica, anche al fine di assicurare, pure in tale materia, l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, e con esse l’unità del diritto oggettivo nazionale (come l’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1942, n. 12, ovvero la legge sull’ordinamento giudiziario, richiede a questa Corte).
6.1.2. In tale prospettiva, pertanto, occorre muovere dalla constatazione che il tema della risarcibilità dei danni causati dagli animali selvatici si è posto all’attenzione della giurisprudenza, sostanzialmente, solo da quando il legislatore ha cominciato ad intervenire in tale ambito, ciò che ha determinato il superamento di quella tradizionale impostazione che ravvisava nella fauna selvatica una «res nullius», con conseguente impossibilità del ristoro dei pregiudizi dalla stessa cagionati. In particolare, con la legge 27 dicembre 1977, n. 968 (Principi generali e disposizioni per la protezione e la tutela della fauna e la disciplina della caccia), la fauna selvatica è stata dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato e tutelata nell’interesse della comunità nazionale (art. 1), assegnandosi le relative funzioni amministrative alle Regioni (quelle legislative ad esse già spettando in virtù della competenza in materia di caccia, secondo la previsione del testo originario dell’art. 117 Cost.), pur riconoscendosi la possibilità di delega alle Province (art. 5). Questo assetto è stato confermato dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), secondo cui le Regioni a statuto ordinario provvedono «ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica» (art. 1), ad esercitare «le funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione faunisticovenatoria», nonché a svolgere «i compiti di orientamento, di controllo e sostitutivi previsti dalla presente legge e dagli statuti regionali», oltre ad attuare «la pianificazione faunisticovenatoria mediante il coordinamento dei piani provinciali» (art. 9), essendo, infine, titolari «di poteri sostitutivi nel caso di mancato adempimento da parte delle province» delle loro funzioni (art. 10). Esse, inoltre, «provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia», controllo che, «esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici» (art. 19), nonché istituiscono e disciplinano il fondo destinato al «risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall’attività venatoria», per «far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta» (art. 26). Per parte propria, alle Province «spettano le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna secondo quanto previsto dalla legge 8 giugno 1990, n. 142», il cui art. 14, comma 1, lett. f), infatti, stabiliva – con previsione, tuttavia, riprodotta, identicamente, nell’art. 19, comma 1, lett. f), del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 – che spettano alla Provincia «le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale» nel settore costituito da «caccia e pesca nelle acque interne».
6.1.3. A fronte di tale quadro legislativo, la questione che si è posta all’esame dell’autorità giudiziaria è consistita nello stabilire in applicazione di quale norma codicistica, nonché a carico di quale soggetto, andasse affermata la responsabilità per i danni cagionati dalla fauna selvatica. Quanto al primo interrogativo, la giurisprudenza di questa Corte si è, fin qui, pressoché univocamente orientata, a differenza di quanto sostenuto in dottrina, nel senso che il «danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall’art. 2052 cod. civ., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall’art. 2043 cod. civ., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico» (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 27 febbraio 2019, n. 5722, Rv. 652994-01; in senso conforme, per limitarsi alle pronunce più recenti, Cass. Sez. 1, sent. 24 aprile 2014, n. 9276, Rv. 631131-01; Cass. Sez. 3, sent. 20 novembre 2009, n. 24547, Rv. 610178-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 novembre 2008, n. 27673, Rv. 605619-01).
Un’impostazione, questa, ritenuta non incostituzionale dal giudice delle leggi, il quale ha escluso la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra il privato, proprietario di un animale domestico (o in cattività), e la Pubblica Amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici (Corte cost., ord. 4 gennaio 2001, n. 4). Più problematica è sempre stata, invece, l’identificazione del soggetto nei cui confronti ritenere operante la Generalklausel di cui all’art. 2043 cod. civ., sebbene, in passato, prevalesse l’orientamento che lo identificava nella Regione, quale ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio; e ciò anche laddove la Regione avesse delegato i suoi compiti alle Province, poiché la delega non fa venir meno la titolarità di tali poteri e deve essere esercitata nell’ambito delle direttive dell’ente delegante (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 21 febbraio 2011, n. 4202, Rv. 616849-01; Cass. Sez. 3, sent. 16 novembre 2010, n. 23095, Rv. 614666-01; Cass. Sez. 3, sent. 13 gennaio 2009, n. 467, Rv. 606148-01; Cass. Sez. 3, sent. 7 aprile 2008, n. 8953, Rv. 602462-01). Nondimeno, a tale indirizzo si è venuto progressivamente contrapponendo un altro, secondo cui, proprio sul presupposto che il fondamento della responsabilità fosse da individuare nell’art. 2043 cod. civ., richiedendo, pertanto, l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico, i danni causati dagli animali selvatici non fossero sempre imputabili alla Regione, bensì all’ente, fosse esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, cui fossero stati concretamente affidati, nel singolo caso, poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, e ciò sia che essi derivassero dalla legge, sia che trovassero la fonte in una delega o concessione (in tal senso, tra le più recenti, Cass. Sez. 6-3, ordin. 17 settembre 2019, n. 23151, Rv. 655507-01; Cass. Sez. 3, ordin. 31 luglio 2017, n. 18952, Rv. 645378-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 giugno 2016, n. 12727, Rv. 640258- 01). Tuttavia, nell’ambito di tale secondo orientamento, si sono venute operando delle puntualizzazioni ulteriori. Da un lato, infatti, si è affermata la persistente responsabilità della Regione, a meno che non sia dimostrato che la delega attribuita, soprattutto alle Province, conferisca loro un’autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentire di svolgere l’attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. Sez. 3, sent. 21 febbraio 2011, n. 4202, Rv. 616849-01). Dall’altro, si è sottolineata la necessità di un’indagine finalizzata a stabilire che l’ente delegato sia stato ragionevolmente posto in condizioni di adempiere ai compiti affidatigli, o non sia, invece, «nudus minister», senza alcuna concreta ed effettiva possibilità operativa (Cass. Sez. 6- 3, ord. 17 settembre 2019, n. 23151, Rv. 655507-01; Cass. Sez. 3, sent. 21 giugno 2016, n. 12727, Rv. 640258-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 dicembre 2011, n. 26197, Rv. 620678-01). Ed ancora, in altri casi, si è stabilito che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici vada imputata alla Provincia a cui appartiene la strada ove si è verificato il sinistro, in quanto ente cui sono stati concretamente affidati poteri di amministrazione e funzioni di cura e protezione degli animali selvatici nell’ambito di un determinato territorio (cfr. Cass., Sez. 3, sent. 12 maggio 2017, n. 11785, Rv. 644198-01; Cass. Sez. 6-3, sent. 19 giugno 2015, n. 12808, Rv. 635775-01).
6.1.4. Orbene, l’assenza di un indirizzo giurisprudenziale univoco, in relazione all’individuazione del soggetto tenuto a risarcire i danni «de quibus» (o meglio, a sopportarne la relativa responsabilità), evidenzia l’esistenza di una forte criticità in relazione allo stesso principio, di rilievo costituzionale, oltre che per il diritto dell’Unione europea e la Convenzione europea per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’effettività della tutela giurisdizionale (sulla cui operatività, anche nei giudizi civili di danno, si veda, in particolare, Cass. Sez. 3, sent. 17 settembre 2013, n. 21255, Rv. 628700-01). Questa Corte, infatti, ha sottolineato, ancora in tempi recenti, la stretta connessione che esiste tra la «stabilità» degli indirizzi giurisprudenziali (soprattutto, ma non solo, su questioni processuali) ed il carattere «effettivo» del principio della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav., sent. 29 marzo 2018, n. 7833, Rv. 648040-01). Di qui, allora, la necessità di un ripensamento dello stesso criterio di imputazione della responsabilità per i danni da fauna selvatici, dovendosi riconoscere che le incertezze nella identificazione del soggetto che, sul piano delle conseguenze risarcitorie, debba farsene carico sono una conseguenza della scelta iniziale di escludere il regime previsto dall’art. 2052 cod. civ. Una scelta, questa, a propria volta, giustificata sull’assunto che la previsione contemplata da tale articolo riguarderebbe, esclusivamente, gli animali domestici e non pure quelli selvatici, in quanto recante un criterio di imputazione della responsabilità basato sulla violazione di un dovere di «custodia» dell’animale, da parte del proprietario o di chi lo utilizza per trarne un’utilità (patrimoniale o affettiva), custodia per natura non concepibile per gli animali selvatici, vivendo essi in libertà. Nondimeno, tanto la lettera della norma, quanto la sua funzione, non giustificano una simile opzione ermeneutica, visto che, quanto al primo profilo, l’art. 2052 cod. civ. non reca alcuna espressa menzione che sia limitata gli animali domestici, ma fa riferimento, esclusivamente, a quelli suscettibili di «proprietà» o di «utilizzazione» da parte dell’uomo. La norma, inoltre, prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell’animale, come si desume, nuovamente, dal suo stesso tenore letterale, là dove prevede, espressamente, che la responsabilità del proprietario o dell’utilizzatore sussista sia che «l’animale fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito». Il riferimento, dunque, alla proprietà e all’utilizzazione (quale relazione, come detto, dalla quale si trae una «utilitas» anche non patrimoniale), ha la funzione di individuare un criterio oggettivo di allocazione della responsabilità in forza del quale, dei danni causati dall’animale, deve rispondere il soggetto che dallo stesso trae un beneficio, in sostanziale applicazione del principio «ubi commoda ibi et incommoda», con l’unica salvezza del caso fortuito.
Che poi, in un simile caso, sussista un diritto di proprietà statale in relazione ad alcune specie di animali selvatici (precisamente, quelle oggetto della tutela di cui alla citata legge n. 157 del 1992), è conseguenza che deriva tanto dalla loro appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato, quanto, soprattutto, dall’essere tale regime di proprietà pubblica espressamente disposto in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema. Orbene, poiché tale funzione si realizza, come visto, mediante l’attribuzione alle Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonché di indirizzo, coordinamento e controllo (non escluso il potere sostitutivo) sugli altri enti, titolari di più circoscritte funzioni amministrative nello stesso ambito, è in capo alle Regioni che va imputata la responsabilità, ai sensi dell’art. 2052 cod. civ.
6.2. Sulla base di questi rilievi il (solo) motivo di ricorso va, pertanto, rigettato, giacché basato esclusivamente sull’asserita imputabilità alla Provincia (e non alla Regione) della responsabilità per danni da fauna selvatica, non senza, però, compiere, ma solo a fini nomofilattici, alcune precisazioni che attengono: ai presupposti per l’imputazione della responsabilità, in applicazione del suddetto criterio ex art. 2052 cod. civ.; all’individuazione dell’effettivo oggetto della prova liberatoria gravante sulla Regione; alle conseguenze scaturenti dal negligente esercizio delle funzioni amministrative, delegate o proprie, da parte di altri enti (in particolare, ma non solo, le Province).
6.2.1. Per l’esattezza, quanto al regime di imputazione della responsabilità, in applicazione del criterio oggettivo di cui all’art. 2052 cod. civ., sarà a carico del preteso danneggiato allegare e dimostrare che il pregiudizio lamentato sia stato causato dall’animale selvatico. Siffatto onere potrà ritenersi soddisfatto allorché sia stata dimostrata la dinamica del sinistro, nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla legge n. 157 del 1992, o, comunque, che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato. Nella peculiare ipotesi, invero, statisticamente piuttosto frequente, di danni derivanti da incidenti stradali che abbiano coinvolto veicoli e animali selvatici, non potrà ritenersi sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell’animale sulla carreggiata, e dell’impatto tra lo stesso ed il veicolo, in quanto il danneggiato, oltre a dover provare che la condotta dell’animale sia stata la «causa» dell’evento dannoso, è comunque onerato, ai sensi dell’art. 2054, comma 1, cod. civ., della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, cioè di avere, nella specie, adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida. Invero, che il criterio di imputazione della responsabilità a carico del proprietario di animali di cui all’art. 2052 cod. civ. non impedisca l’operatività della presunzione prevista dall’art. 2054, comma 1, cod. civ., nei confronti del conducente di veicolo senza guida di rotaie per danni prodotti a persone o cose, compresi anche gli animali, dalla circolazione del veicolo, è affermazione costante nella giurisprudenza di questa Corte. E ciò sul presupposto che l’art. 2054 cod. civ. esprima principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 7 marzo 2016, n. 4373, Rv. 639473-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 agosto 2002, n. 11780, Rv. 556722-01).
6.2.2. Quanto alla prova liberatoria, che ha ad oggetto la dimostrazione che il fatto sia avvenuto per «caso fortuito», premesso che essa non riguarda direttamente il nesso di causa tra la concreta e specifica condotta dell’animale ed il danno causato da tale condotta, consisterà nel dimostrare che la condotta dell’animale si sia posta del tutto al di fuori della sua sfera di possibile controllo, operando, così, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno. Occorrerà, in altri, provare che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile e/o che, comunque, non era evitabile, e ciò anche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna (e di connessa protezione e tutela dell’incolumità dei privati), concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto, purché, peraltro, sempre compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema cui la stessa tutela della fauna è diretta. Viene in rilievo, in proposito, una nozione di caso fortuito analoga a quella elaborata da questa stessa Corte, con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 2051 cod. civ., in particolar modo con riguardo all’ipotesi di danni causati da anomalie dei beni demaniali di ampia estensione, in cui si dà rilievo alla concreta esigibilità da parte dell’ente pubblico di una condotta, nella manutenzione del bene e nell’adozione di misure di protezione degli utenti, tale da poter effettivamente impedire il danno (cfr., tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 18 giugno 2019, n. 16295, Rv. 654350- 01; Cass. Sez. 3, sent. 5 marzo 2019, n. 6326, Rv. 653121-01; Cass. Sez. 6-3, ordinanza 23 gennaio 2019, n. 1725, Rv. 652290-01).
6.2.3. Infine, per venire all’ultimo dei tre profili di cui sopra si diceva, chiariti i termini in cui l’attore/danneggiato è tenuto ad assolvere i propri oneri probatori, e la Regione, per parte propria, a fornire la prova del caso fortuito, qualora essa, convenuta in giudizio per il risarcimento, reputi che le misure idonee ad impedire il danno avrebbero dovuto essere adottate da un altro ente, potrà, anche in quello stesso giudizio, agire in rivalsa, senza, però, che ciò implichi modifica, in relazione all’azione posta in essere dal danneggiato, del criterio di individuazione del titolare, da lato passivo, del rapporto dedotto in giudizio. Di conseguenza, solo con riferimento dell’azione di rivalsa tra la Regione e l’ente da questa indicato come effettivo responsabile potranno, e quindi limitatamente al rapporto processuale tra di essi intercorrente, assumere rilievo tutte le questioni inerenti al trasferimento o alla delega di funzioni alle Province (ovvero eventualmente ad altri enti) e l’effettività della delega stessa (anche sotto il profilo del trasferimento di adeguata provvista economica, laddove ciò possa ritenersi rilevante in tale ottica), così come tutte le questioni relative al soggetto effettivamente competente a porre in essere ciascuna misura di cautela.
7. Quanto, infine, alle spese del presente giudizio, le stesse vanno integralmente compensate tra le parti, a norma dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ., in considerazione dell’oggettiva incertezza interpretativa sussistente in ordine alle questioni giuridiche esaminate.
8. A carico della ricorrente, stante il rigetto dell’impugnazione, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
PQM
La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.